A volte un gioco può diventare molto più di un semplice passatempo. È quello che è successo a Dario Esposito, membro della nostra community, che ha usato la gamification e il vibe coding per aiutare una ragazzina appena arrivata in Italia, senza conoscere una parola di italiano, a sentirsi accolta e coinvolta. La sua esperienza dimostra come il gioco, unito alla tecnologia, possa diventare un ponte universale capace di abbattere le barriere linguistiche. Buona lettura!

Quando mi hanno detto di seguire Isabel (nome inventato) una ragazza minorenne arrivata in Italia da pochi giorni che si esprimeva solo ed esclusivamente a gesti e non conosceva neanche una parola i italiano, non ho pensato a framework, linguaggio o architetture.

Ho pensato a lei.

Al suo sguardo un po’ smarrito in classe.
Al suo sorriso timido quando qualcuno le parlava lentamente.
Al suo coraggio, silenzioso ma immenso, di alzare la mano anche se non sapeva come chiedere “posso
andare in bagno?”.

Così ho creato per lei un’app. Semplice. Un gioco in stile “memory”
.
Due carte. Una parola. Un’immagine. Un suono.

Niente voti. Niente timer.

Solo lei, il suo ritmo, e la libertà di sbagliare.

Il gioco che ha aperto una porta — e fatto entrare tutti

La prima versione era fatta con uno strumento AI — sì, l’ho costruita senza scrivere codice, usando quel che oggi qualcuno chiama “Vibe Coding”: descrivere l’intento, non la sintassi. Ma non è questo il punto.

Il punto è che ho ascoltato Isabel.

Le ho chiesto: “Che categorie di parole preferisci imparare? Argomenti legati alla natura? Alla scuola? Lei ha risposto solo con un cenno quando ho nominato la parola “scuola”

Ho cambiato l’app per renderla più “efficiente” ma soprattutto per renderla sua.

E lì è successo qualcosa di inaspettato.

Non è stata solo Isabel a giocare.

Altri ragazzi — alcuni con difficoltà cognitive, altri semplicemente fragili — si sono avvicinati. Hanno voluto provare. Hanno iniziato a giocare insieme. Ridevano degli errori e si percepiva quel pizzico di competizione pura, che solo ai ragazzi ormai è permesso provare.

Il gioco aveva fatto qualcosa di più della semplice e mera parola: aveva creato una piccola comunità. Una
comunità fatta di sguardi e di sorrisi dove la parola non era necessaria.

Huizinga lo sapeva: il gioco è dove l’umano si rigenera
Nel suo Homo Ludens, Johan Huizinga scrive che il gioco non è un passatempo. È uno spazio sacro — un
magic circle — dove le regole sono chiare, gli errori non condannano, e tutti, per un momento, sono sullo
stesso piano.

Per Isabel, quel cerchio era l’app.
Per gli altri ragazzi, era diventato un rifugio sicuro — dove potevano provare, sbagliare, riprovare, senza che
nessuno li giudicasse.

Non erano “studenti con difficoltà o speciali”.
Erano “giocatori con strategie tempi e metodiche diverse”.

E quella differenza — piccola, ma potentissima — ha cambiato tutto.

Mihaly Csikszentmihalyi: il flow non è per pochi. È per chi viene ascoltato
Poi c’è lui: Mihaly Csikszentmihalyi, lo psicologo che ci ha insegnato cos’è il flow — quello stato in cui il
tempo scompare, la mente si concentra, e tutto sembra fluire naturalmente.

Guardando Isabel giocare, ho capito che era in flow.
Non perché l’app fosse perfetta.
Ma perché era giusta per lei.

Né troppo facile (che annoia).
Né troppo difficile (che scoraggia).
Solo… bilanciata sul suo passo.

E quel bilanciamento non veniva da un algoritmo.
Veniva da una domanda: “Di cosa ha bisogno?”

La tecnologia serve — ma solo se mette al centro la persona
Sì, ho usato un tool AI. Sì, non ho scritto codice. Sì, si potrebbe chiamare “Vibe Coding”. Ma non è questa la
notizia.

La notizia è che abbiamo invertito la logica: invece di adattare la persona alla tecnologia, abbiamo adattato
la tecnologia alla persona.

Senza dashboard complicate.
Senza analisi comportamentali.
Senza “ottimizzazione dell’esperienza utente”.

Solo: “Cosa ti serve? Cosa la farebbe sentire sicura ed integrata?”

E l’app — semplice, mutevole, imperfetta — ha risposto.

Il futuro dell’educazione non è nell’IA. È negli occhi di chi impara

Questa storia non è un tutorial tecnico.
Non è un manifesto del no-code.
Non è una pubblicità per strumenti AI.

È un promemoria.

Che il vero motore dell’apprendimento non è la complessità della piattaforma — ma la fiducia che diamo a
chi impara.
Il gioco, quando è fatto con cura, può essere uno strumento di inclusione potentissimo.

Huizinga lo sapeva: il gioco è la radice della cultura.
Csikszentmihalyi lo sapeva: il flow è la radice della motivazione e della “felicità”
E noi? Noi stiamo imparando: l’educazione funziona quando parte dalla persona — non dal prodotto.

di Dr.Dario Esposito per ProjectFun

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